sabato 15 novembre 2008

Silenzi perfetti

Ultimamente non c'è giorno che sotto la nostra finestra non passi un corteo. La gattina arruffa il pelo e socchiude gli occhi, e lascia che tutto ciò che scorre segua il suo corso; che siano fiumi di fango per diluvi inaspettati, o rabbia e frustazioni umane.
Così mi viene da pensare ai silenzi, talmente rari ormai, che quasi me ne sono dimenticata. I silenzi blu della mia infanzia, così immensi che quasi mi ci perdevo, in cui volavo con la fantasia e navigavo fino a terre sconosciute.
I silenzi rosa in cui resto a bocca aperta ad ammirare la perfezione di un sorriso che mi fa perdere qualche battito di cuore, in singhiozzi d'adorazione per l'uomo che amo.
I silenzi rossi, carichi di rabbia e tensione, che diventano elettricità e impulsi nervosi alla bocca dello stomaco, finchè i muscoli indolenziti non chiedono pietà, e un armistizio, cedendo talvolta alle tartassanti richieste di sicurezze impossibilili, pur di respirare ancora e dimenticare.
I silenzi neri. Ma di questi no, non voglio parlare, perchè appena vengono sfiorati ingoiano tutto nella loro voragine.
I silenzi dorati in cui ti sembra di cogliere una verità; e poi ti accorgi solo che ti è passata accanto, con un battito d'ali leggero come di farfalla, e la sua polvere luminescente ti ha per un istante accecato.
I silenzi grigi, in cui assorbi tutte le lacrime e aspetti, aspetti che qualcuno li spezzi e trasformi quelle sfumature in colori.
I silenzi... bianchi. Candidi e soffici, in cui tutto è perfetto, in cui il silenzio è musica che non ha bisogno del suono, armonia di sorrisi anche solo pensati, e sguardi, sguardi che ti illuminano dentro, aprono porte che non sapevi di possedere, e creano orizzonti nuovi.
Mi cullo in questi pensieri, sospiro e socchiudo gli occhi. Se fossi una pelosetta come Chii, arrufferei anch'io il sottile morbido confine che mi separa dal mondo.
E ora scusate, ma entro nel mio silenzio rosa...
è davvero un piccolo miracolo, di cui non sono mai sazia.
Che ingorda d'amore. E di silenzi.

domenica 5 ottobre 2008

the Reaper whose name is Death

Sono successe molte cose in un lampo. Mi sono trovata sotterrata sotto montagne di sabbiaparole che appena mi muovevo mi affogavano sotto onde impietose, gessandosi in dune di deserti bianchi come fogli e paura. Respiravo poco là sotto, figuriamoci "pensare". I suoni arrivavano attutiti, come attraverso una coltre di neve, ma non era così fredda da volersela scrollare di dosso... mi ci sono abituata, a quella vita sotterranea. Coccolata, amata, al calduccio... protetta. Senza la necessità di un "pensiero".
Poi è passato un vento freddo, e nonostante stessi rannicchiata là sotto, l'ho sentito.
E' diventato sempre più forte, una tempesta. E le gocce di pioggia hanno scavato fin giù... e mi hanno trovato. Gelate, sono arrivate fino al cuore, e ho sentito un brivido.
Così ho capito, che ero io il deserto, ed ero io il temporale, e le ho riconosciute, le mie lacrime.
E guardando in alto, sulla superficie delle cose, ho capito che non volevo risalire. Non ora, ti prego, no... piangevo come una bambina egoista.
Invece è successo, e il deserto è rimasto bianco, scavato dalla pioggia ma bianco, perchè non ci sono parole.
Come spiegare che nonostante qualche gene di distanza, nonostante occhi gialli e una mappa di pelo che ho seguito dall'infanzia fino a poco tempo fa come guida, nella quale mi perdevo accarezzandola e amandola, là, sotto quella pelle ormai tirata e quelle ossa così fragili... c'era mia sorella...?
Mi fa ancora male scriverne.
Forse non potrò mai spiegarlo a parole. Non trovandole per tanto tempo, ho perso fiducia in loro, nel loro potere d'esorcizzare quelle strisce di pioggia che solcano ancora il mio deserto, come righe vuote di un quaderno.
Scusate le poche confuse parole. Forse non le so più usare.

sabato 2 agosto 2008

***30***

Trenta è una cifra cicciotta. Stamattina tra il sonno e la veglia, immaginavo il povero 3 che, non ancora abituato al suo posto, caracollava e inciampava, cadendo sul suo vuoto e diventando un "no" corsivo, con la grafia del primo giorno di scuola. Perchè no? La negazione insita in questo trentesimo anno non mi sembra giustificata. Dopotutto, sono già trentenne da un anno, e da oggi entro nel trentunesimo; solo che non lo sapevo, o almeno non lo sentivo. E dopotutto l'importante è questo: porterò ancora il cappello con le orecchie da gatto, d'inverno. E d'estate le mie scaciatissime sinocrocs rosso scambiato. E continuerò a disegnare pupazzetti strambi, a dipingerli magari sulle mie scarpe con un pennellino intinto nel lucido nero testa di moro, e a sognare a colori tutte le mille vite che mi porto dentro, compreso quel racconto per bambini che ho lasciato a metà e che ogni tanto ritrovo sparso in vecchie agendine sdrucite.

La mia mente parla ancora i linguaggi delle crisalidi, ed è pronta per mille nuovi risvegli.

venerdì 25 luglio 2008

Cuscino speciale


Vi assicuro che è pelosissimamente morbido e comodo, ottimo per chi ha problemi di osso sacro. Lavabile a secco, ecologico, elettrostatico, vibrante, si ricarica con batterie a base di tonno e misto mare. Una unica controindicazione: a volte punge.

mercoledì 2 luglio 2008

CRASH DI SISTEMA

Sono e sarà sempre niubba, in tutte le materie e in tutti gli ambiti. Perchè oltre ad avere l'unica certezza di essere ignorante in fin troppe cose, le stesse cose che conosco... le dimentico con una facilità impressionante. Credo che il mio cervello pensante si sia atrofizzato. Mi sa che ormai faccio tutto in automatico, grazie alle funzioni del cervelletto. Sarà il caldo? O l'età? O il lavoro? O un mix intossicante di queste tre cose?

Negli ultimi tempi lavoro talmente tanto al PC che il mio cervello ha cominciato a mimare il funzionamento di Windows. Se faccio due cose contemporaneamente, in una delle due mi blocco come se fossi stata ipnotizzata, o agisco in slow motion. Tipo lavare i piatti mentre guardo Green Mansions con Audrey Hepburn. Perchè poi alla fine lei muore. O no? Il bicchiere insaponato resta pericolosamente sospeso, trattenuto solo in un angolino dal guanto di plastica giallo Pikachu.

Poi me ne accorgo e ricomincio a sciacquarlo, piatto, pentola, forchette.... piatto.... Ma anche lui è morto allora? Il piatto raggiunge un precario equilibrio semiappoggiato sull'angolo del lavello. Cavolo, sì che deve essere morto, oppure si è preso delle droghe pesanti per veder fiorire gigli bianchi nella foresta e vincere contro un indio forzuto, armato e perfido...

Il piatto cade e urta la padella. Un'altra incrinatura, forse quella fatale. Porca paletta, ho tutti i piatti fondi scheggiati ai bordi.

E così mentre sto studiando costituzionale. Passa un ambulanza, Marco si affaccia al balcone, "Ma che si è fermata sotto da noi?", rientra, mi parla dei colpi di calore ai vecchietti, del cagnolino della vicina al terzo piano che abbaia un pò troppo e forse sarebbe il caso di chiamare la Protezione animali.... Ma la mia mente non afferra altro che la differenza tra legislazione concorrente e residuale tra Stato e Regioni. Poi, dopo circa cinque minuti, mi viene il dubbio. "Ma mi hai detto qualcosa?". Ho sposato un santo.

mercoledì 18 giugno 2008

La luce dentro alle persone


Banana Yoshimoto mi lascia addosso sempre una sensazione un pò vaga, come una storia di cui dimentico la trama, come una pellicola leggera di parole che si stacca dalla mia pelle per mostrarmi sotto una nuova lucida me stessa. Nell'istante stesso in cui poi si esauriscono le pagine, avviene un subitaneo tabula rasa, e mi stupisco di com'è semplice dimenticare le parole, lasciando invece accumulare nel profondo le sensazioni. La mia nuova pelle diventa subito opaca e grigia, e comincia a tornare la corazza di sempre. Però dentro, come un'eco morbida e potente, rimane un senso di miracolo, di ingenua grazia fragile e inaspettata, e una luce calda e soffusa mi si deposita nel cuore. Danza assieme alle scintille di mille altre voci, e canta una vecchia ballata medievale che addormenta l'ombra come una ninna nanna. Chissà se lo spirito può sorridere: quando sento questa luce dentro, ho la sensazione che sia possibile.

E poi, a volte, questa luce filtra attraverso gli specchi dell'anima; vibra di meraviglia come il riflesso della luna in fondo a un pozzo, alla notizia che dentro il ventre di una persona cara sta nascendo una microscopica vita. O esonda maree di gioia, piccoli torrenti di lacrime nati chissà dove, dall'oceano che ciascuno custodisce dentro come ricordo primordiale di materno amore. E l'attimo che innesca questa esplosiva reazione spirito-corpo, che sconvolge e rimescola tutto, può anche essere una semplice notizia che appare sul display di un telefonino, mentre una coccinella distratta si posa sul vetro e vibra le antenne all'unisono col battere del tuo cuore.

Ma come si fa a non credere nei miracoli?

mercoledì 7 maggio 2008

Sogni e bisogni

Quando m'immergo nelle calde acque placentari dell'universo onirico varco ogni limite, mi scindo in mille particelle brillanti e mi ricompongo come un'avventurina stellata sul fondo dell'abisso. Non ho la purezza paziente di una perla, e neanche il fascino barocco dell'imperfezione: mi condenso in un grumo sferico e scuro, screziato dalle imprevedibili possibilità nascoste nella danza delle sinapsi. Pian piano la possibilità prende forma, e mi ritrovo col corpo di un uomo, di un felino mutevole, di un fantasma galleggiante. Annaspo tra scale di legno marcio, salendo lungo la spirale coclide delle mie insicurezze, osando guardare alle spalle vecchie paure deformi e fiammeggianti. Oppure mi districo tra giungle di stanze entro labirintici cubi dimensionali. O, ancora, mi lascio sfuggire qualche lacrima che brucia fin dentro il cuore, avvolta in una luce di vaniglia soffice e respirando profumi di lavanderia antica, mentre stringo la mano di una persona che nel mio mondo non esiste più. Come potrei raccontare i miei sogni? Spesso li trovo più intensi delle giornate al di là di questa soglia, dove esistono il tempo e la morte. Li sento con sensi di cui non conosco la dislocazione, li ricordo con una intensità che mi spaventa. A volte, per più di qualche secondo, li confondo addirittura con avvenimenti "reali", e non riesco a trovare il confine tra il tempo che passa e quello che esiste.
Creo sogni a scatole cinesi, a puntate, ad albero. O forse sono loro che creano me, un frammento dopo l'altro, come un puzzle di emozioni e ricordi che viene man mano riordinato in un essere pluridimensionale.
Qualche mese fa c'è stato un sogno lunghissimo, ne sentivo ogni scena con una strana partecipazione vibrante. Mi sono ripromessa di metterlo per iscritto, e su fogli svolazzanti la mia penna ha corso per ore, per appuntarne qualche barlume. Ho addirittura comprato un quaderno, per districare quella matassa aggrovigliata e tesserlo secondo una certa narrazione da poter condividere. Ma il quaderno è ancora lì, col suo silenzio bianco vergato di linee sottili come fili... un pò per il tempo che scorre tiranno, e che non so controllare, un pò perchè è qualcosa di così intimo che vorrei prendermi il tempo per i preliminari... ma pian piano l'emozone svanisce, e rimane solo la forma... le scintille affogano negli abissi, e io dalla superficie, da quassù, non riesco a far altro che guardarle agonizzare; un'altra volta, come sempre, si spegneranno, sgretolandosi con un muto disappunto, e sedimenteranno come sabbia nelle mie profondità....
Poi arriverà un'altro sogno, a scuotermi, a chiedermi di danzare. Forse un giorno riuscirò a prendere quella luce... prima che si spenga?

lunedì 24 marzo 2008

Oshiruko

Ultimamente un mio amico mi ha fatto un regalo inaspettato. Mi è arrivato un pacchetto nipponico contenente qualche delizia che qui in Italia è difficile trovare. Premettendo ke al maritino si accappona la pelle al solo pensiero di considerar deliziosi dolci a base di maccha o anko, io non posso davvero fane a meno. Mi intristisco se non posso assaggiarli per troppo tempo; perchè mi fa avvertire quanto la distanza pesi ancora sugli indicibili lussi e comodità apportati dal mercato globale. Anche se la mia anima ecologista agonizza al pensiero degli aerei merci che trasportano da una parte all'altra del mondo queste inutili piccolezze, faccio voto di tipicità nella mia spesa quotidiana promettendomi di incrementare formaggi e verdurame locale per espiare... Ma rinunciare al maccha, come si fa? Recentemente una dottoressa, peraltro nel giusto, mi ha intimato di eliminare dalla mia dieta caffè, cioccolata, piccante, pomodori, agrumi e alcolici... ma il maccha no, non ci riesco. E sinceramente anche al cioccolato concedo qualche peccaminosa svista. Nel pacchetto oltre alle mie consuete dosi di maccha in polvere, c'erano anche due ciotoline di oshiruko liofilizzato. Cavolo, liofilizzano proprio tutto.... come dire che qui potremmo fare il tiramisù o la pastiera liofilizzata, per chi non ha tempo di fare quelli veri. Il tempo è sempre un lusso che si paga caro, chi lavora lo sa bene. E chi più dei giapponesi ne è consapevole? Ma bando ai compromessi qualitativi, che fin quando si può si evitano, queste coppette di polistirolo in cui versare acqua calda ed aspettar due minuti, son davvero un giocattolo prodigioso. Dopo aver miscelato per bene, l'oshiruko sembra assumere un aspetto quasi convincente. Il mochi sprofonda invece di galleggiare, ma va bene lo stesso. Ne prendo un cucchiaino, lo assaggio e.... mi viene da piangere. Primo, perchè sento la mia anima trasporta virtualmente in Giappone. Secondo, perchè le mie papille gustative inferiori constatano un retrogusto di polistirolo. Un viaggio breve, un ritorno un pò brusco. Ma mi è bastato. Anche il maccha ice funziona bene, e mi si bloccano le lacrime in gola, di solito. Ma niente come lo zenzai mi teletrasporta indietro nel tempo e nello spazio, fino a collocarmi a Tokyo, in un locale sotterraneo di Ginza, assieme ai miei amici Isao e Yuki. Forse sarà perchè solo in giappone una pappetta dolce e calda di fagioli rossi con roba molliccia e bianca che galleggia può essere considerato un dessert. Sarà anche rivoltante a vedersi, come molti qui in Italia mi hanno fatto notare. Eppure io lo trovo bellissimo. Ha davvero un sapore magico, che mi riporta in Giappone. Non so come mai. Ma mi sale dentro una malinconia struggente, come quella di un bambino rapito a cui viene data dopo anni di reclusione una fetta di torta fatta dalla mamma. Alla faccia delle madeleine di Proust... è una cosa che non si può spiegare.

sabato 8 marzo 2008

Dimensioni oniriche

Avete mai sentito parlare della teoria delle stringhe? Mi viene da ricordare quando da piccola tracciavo ragnatele pluridimensionali all'interno dell'armadio di balsa nella mia cameretta di Campobasso. Ogni istante portava ad una o più biforcazioni, in un gioco a scatole cinesi infinito. Diciamo, un numero di scatole (che chissà perchè immagino sferiche) che si aggira sul 10 alla 500sima. Alla faccia della potenza... in tutti i sensi.
Nei miei giochi da bambina immaginavo di essere una viaggiatrice multidimensionale; e, è logico, avevo bisogno di una mappa per orientarmi. Povero armadio, inciso nelle sue interiora di morbido legno e vandalizzato da generazioni di ragazzine annoiate che avevano dormito lì. Forse se gli avessi tracciato dentro un albero genealogico per lui sarebbe stato lo stesso, o almeno avrebbe avuto un indizio dei nomi dei piccoli malvagi che l'avevano vessato per decenni... Sarà mica per questo che di notte si apriva cigolando terribilmente? Mi ero convinta che fosse per l'umidità notturna, ma forse si trattava di una sua piccola vendetta. Chi abita in case con mobili di legno vero sa che quando sale la luna in cielo loro gridano, sussurrano, e chissà che cosa si raccontano. Non avevo proprio la coscienza pulita nei suoi confronti se prima di affondare nel mondo onirico, col suo sottofondo di cigolii immaginavo ogni notte un'armatura inanimata che veniva a tagliarmi i polsi con una daga gigantesca e rugginosa. O a volte, che sull'uscio (che dal mio letto non potevo vedere perchè coperto dalla porta aperta) ci fosse l'Uomo che Sta ad Osservare. Restava lì, immobile: non poteva varcare le soglie, ma rimaneva lì a guardare. Lui mi vedeva; io lo sentivo. Poi, affondavo nel sonno come in un liquido denso e soffice al tempo stesso. Ed ecco il varco: i sogni. Le stringhe vibrano, e vanno in corto circuito; sfioro luoghi con logiche differenti, con leggi fisiche sottosopra, provo sensazioni, pensieri che non saprei descrivere, parole che non potrei pronunciare nel mio mondo. Non so se è per tutti lo stesso, ma io vedo i colori; ho cognizioni tattili, e uditive. Raramente sento anche profumi, ma non potrei affermare con certezza che li percepisco col naso. Il gusto infine, è la parte meno stimolata, anche se quando sogno certi baci poi al risveglio mi rimane la sensazione sulla punta delle labbra, come un formicolìo.
Sono curiosa: un paio di gemelli monozigoti che vive la stessa identica giornata, fa sogni differenti? Il sogno è stato psicoanalizzato, e ridotto a un evento schizoide o di autoinganno preservativo; è stato interpretato, ed è servito come calderone per tirar fuori profezie e comunicazioni medianiche con l'aldilà e con Dio. Povero sogno, anche lui come il mio armadio è stato vandalizzato da generazioni. Ma se fosse anche un metodo di comunicazione? Insomma, tramite internet ormai ci siamo emancipati dalla materia per comunicare. A nessuno è mai venuto in mente di tentare di comunicare tra dimensioni attraverso i sogni? Forse è un limite dell'umanità, perchè non sappiamo elaborarne un metodo, una scienza; non sappiamo spiegarne la logica, imbrigliarla all'utilizzo. Non è mai una sicurezza, un sogno: ci mette in gioco del tutto, ci scava dentro. Troppo intimo, segreto, per condividerlo come si fa con le parole, con i gesti. Ma di una cosa sono certa: non ho mai sentito parlare (tranne che nel mondo della celluloide) di sogni che uccidono. Ogni volta che sono morta, nell'universo onirico, sono risorta in questo. perciò, perchè non tentare? C'è gente che sfida la morte; perchè non sfidare la materia, attraverso il sogno?

giovedì 28 febbraio 2008

Vibrazioni

Ieri sera, Ondekoza.
Vorrei riuscire a descrivere cos'ho provato, ma una parte di me sa che la bicromia dello yin e yang che sciorina la tastiera non potrebbe mai riuscirvi.
Ciònonostante, provo.
Immaginate la pioggia. Leggera, scroscia con diverse densità di carezze, sulle foglie degli alberi, i cespugli, il sottobosco, affonda nella terra con piccoli passi di danza fatata. Il vento l'accompagna, la guida, le dà slancio o la solleva e la fa stare silente per un microistante, tessendo l'armonia degli attimi come una musica prenatale. E quasi non ci fai caso che le bacchette dai sonagli dorati che roteano con ipnotica forza, e dolcezza, toccano davvero i piccoli tamburi. Gli uomini che le tengono in mano non esistono: sono un'onda che si alza, si abbassa, diventa soffusa, e poi con inaspettata intensità si rialza...
Fin qui, un moderato stupore, un sorriso velato dall'ammirazione della tecnica e della precisione.
Ma poi, arrivano i Taiko. Una schiera di tre esseri tondi, di un rosso lucido come il sangue. Dico "esseri", perchè quando l'uomo suona il Taiko, diventa un tutt'uno con esso. Dire che sono due entità separate, quando esso risuona, è un pò come distinguere tra un cantante lirico e le ramificazioni alveolari dei suoi polmoni. Il Taiko vive. Ed è un Dio.
O almeno, se fossi in lui, metterei in mano ad Azraeel un Taiko, e non una tromba, per porre fine a un Universo, e per farne nascere un'altro.
Il vibrare dei tre Taiko insieme, libera in me un accenno di pensiero.
E cioè che Qfwfq avesse ragione, e Calvino con lui. Il nostro sangue è davvero il mare. E risuona. Quel velo di coscienza che ricopriva il mio sorriso scompare, mi abbandono alla marea. Massaggia la mia anima fin nel profondo.
Poi, arriva il Grande Taiko. E mentre l'Universo vibra, nell'uomo seminudo sotto i riflettori scorgo qualcosa. Prima di tutto, possiede muscoli che non avevo mai visto prima. Li trovo strani, quasi disumani, per come si piegano e si contraggono nello sforzo di suonare un tamburo che è cinque volte lui. D'improvviso, mi sembra una formichina. La sala scompare nel buio, il buio nella luce e insieme si arrotolano innamorati nel vortice del Tomoe. Mi sento così piccola, infinitesimale, fragile. Ma vibro all'unisono col creato.

lunedì 25 febbraio 2008

Il complesso di Penelope


Chissà se mi sto ammalando di indecisioni. Forse la paziemza smisurata non è un pregio, forse vale la pena fermarsi a guardare la tela ogni tanto, piuttosto che continuare a tessere imperterrita. Però tessere dà una tale sicurezza... Penso che Penelope non ce l'avrebbe fatta a restare sola tanti anni, se non avesse addormentato il suo cuore con la nenia del fare e disfare... un pò come quella che le casalinghe sagge conoscono bene, e che usano come incantesimo di annullamento. Non sono più io, sono le cose che faccio, sono il ritmo della navetta che scivola veloce avanti e indietro tra le onde dell'ordito, ipnotica, rassicurante.

Mi sono riletta quel passaggio finale dell'Odissea, attraverso le parole di Pindemonte, mentre il treno della linea Fara Sabina mi cullava. Quello dell'ultimo trucchetto di Penelope, dell'ultimo muro del suo cuore d'acciaio, indurito e al contempo sospeso, prima di abbandonarsi alle lacrime e credere davvero. E mi è venuta in mente anche la sfortunata dama di Shalott, ritratta come solo i preraffaelliti sanno fare, con quel cremisi e quei capelli morbidi, e le tappezzerie così raffinate che sembrano palpabili. Lei non attendeva, poverina, perchè non c'è speranza nelle maledizioni. E la sua era quella di non poter vedere la realtà con gli occhi, ma solo attraverso fumosi specchi, e ritrarla sulla tela che tesseva giorno dopo giorno. Chissà se davvero la speranza fa la differenza? E' meglio un cuore di ghiaccio, o uno di vetro? Se non arriva nessuno a sciogliere il ghiaccio, se non viene nessuno a spezzare il vetro, c'è davvero senso nel tessere?

mercoledì 23 gennaio 2008

Le idee in testa

La Guerrilla Marketing è attorno a noi. Forse un pò meno nel Bel Paese, dato che c'è un sacro timore che la fase teaser possa turbare troppo gli animi delicati. Come dire: facile far ridere con le barzellette "sporche"; se si è davvero bravi si riesce a attirare l'attenzione anche col fantasma formaggino. E da noi l'equilibrio sta tutto qui, in bilico tra la tensione centrifuga all'innovazione per produrre emozioni forti, e la forza centripeta del perbenismo filovaticanense. Ma che effetto virale vuoi produrre in un paese dove anche la zuppa di coccodrillo della Knorr diventa prosaicamente un piatto di "verdure da grandi"? Ci vogliono davvero degli Einstein che al posto delle sinapsi dei neuroni hanno delle supernove.

Forse è per questo che sguazzo nel copywriting mantenendomi giusto sul bordo dell'abisso, da brava funambola cieca che ascolta il vento più che badare alle regole wikipediane. Per ora però, coi miei gessetti colorati di certo non riuscirei a raggiungere la complessità di un Picasso; e nel caso esploda una illuminazione da supernova nel mio cervello, lo sapranno anche le talpe, lo prometto, alla faccia della mia timidezza. Insomma, per ora rimastico gli stessi titoli e mi muovo nei soliti confini, perchè è questo che mi fa portare il pane a casa. Comodo veleno moralmente degradante, come fare la spesa senza leggere gli ingredienti e le multinazionali produttrici, perchè fa risparmiare tempo.

Tempo che quando va bene si passa a pensare. Pensieri che implodono in sè stessi, si frantumano in polvere di stelle, e si spargono in fantasie a vicolo cieco a cui sono ormai abituata. Il mio callo dello scrittore si è trasferito dentro, nascosto tra circonvoluzioni cerebrali a me ignote, e si attiva in automatico lasciando scorrere immagini e sensazioni. Mi rilassa, e lascia in pace la mia tendinite latente.

Insomma, pensare pesa, come vedere. Per guardare, per sentire, basta un romboencefalo, nel senso che il rumore ottundente che ci avvolge è diventato tutt'uno con noi.
Forse è per questo che scrivo di meno. Comincio ad apprezzare il silenzio. O ad abituarmici.