giovedì 28 febbraio 2008

Vibrazioni

Ieri sera, Ondekoza.
Vorrei riuscire a descrivere cos'ho provato, ma una parte di me sa che la bicromia dello yin e yang che sciorina la tastiera non potrebbe mai riuscirvi.
Ciònonostante, provo.
Immaginate la pioggia. Leggera, scroscia con diverse densità di carezze, sulle foglie degli alberi, i cespugli, il sottobosco, affonda nella terra con piccoli passi di danza fatata. Il vento l'accompagna, la guida, le dà slancio o la solleva e la fa stare silente per un microistante, tessendo l'armonia degli attimi come una musica prenatale. E quasi non ci fai caso che le bacchette dai sonagli dorati che roteano con ipnotica forza, e dolcezza, toccano davvero i piccoli tamburi. Gli uomini che le tengono in mano non esistono: sono un'onda che si alza, si abbassa, diventa soffusa, e poi con inaspettata intensità si rialza...
Fin qui, un moderato stupore, un sorriso velato dall'ammirazione della tecnica e della precisione.
Ma poi, arrivano i Taiko. Una schiera di tre esseri tondi, di un rosso lucido come il sangue. Dico "esseri", perchè quando l'uomo suona il Taiko, diventa un tutt'uno con esso. Dire che sono due entità separate, quando esso risuona, è un pò come distinguere tra un cantante lirico e le ramificazioni alveolari dei suoi polmoni. Il Taiko vive. Ed è un Dio.
O almeno, se fossi in lui, metterei in mano ad Azraeel un Taiko, e non una tromba, per porre fine a un Universo, e per farne nascere un'altro.
Il vibrare dei tre Taiko insieme, libera in me un accenno di pensiero.
E cioè che Qfwfq avesse ragione, e Calvino con lui. Il nostro sangue è davvero il mare. E risuona. Quel velo di coscienza che ricopriva il mio sorriso scompare, mi abbandono alla marea. Massaggia la mia anima fin nel profondo.
Poi, arriva il Grande Taiko. E mentre l'Universo vibra, nell'uomo seminudo sotto i riflettori scorgo qualcosa. Prima di tutto, possiede muscoli che non avevo mai visto prima. Li trovo strani, quasi disumani, per come si piegano e si contraggono nello sforzo di suonare un tamburo che è cinque volte lui. D'improvviso, mi sembra una formichina. La sala scompare nel buio, il buio nella luce e insieme si arrotolano innamorati nel vortice del Tomoe. Mi sento così piccola, infinitesimale, fragile. Ma vibro all'unisono col creato.

lunedì 25 febbraio 2008

Il complesso di Penelope


Chissà se mi sto ammalando di indecisioni. Forse la paziemza smisurata non è un pregio, forse vale la pena fermarsi a guardare la tela ogni tanto, piuttosto che continuare a tessere imperterrita. Però tessere dà una tale sicurezza... Penso che Penelope non ce l'avrebbe fatta a restare sola tanti anni, se non avesse addormentato il suo cuore con la nenia del fare e disfare... un pò come quella che le casalinghe sagge conoscono bene, e che usano come incantesimo di annullamento. Non sono più io, sono le cose che faccio, sono il ritmo della navetta che scivola veloce avanti e indietro tra le onde dell'ordito, ipnotica, rassicurante.

Mi sono riletta quel passaggio finale dell'Odissea, attraverso le parole di Pindemonte, mentre il treno della linea Fara Sabina mi cullava. Quello dell'ultimo trucchetto di Penelope, dell'ultimo muro del suo cuore d'acciaio, indurito e al contempo sospeso, prima di abbandonarsi alle lacrime e credere davvero. E mi è venuta in mente anche la sfortunata dama di Shalott, ritratta come solo i preraffaelliti sanno fare, con quel cremisi e quei capelli morbidi, e le tappezzerie così raffinate che sembrano palpabili. Lei non attendeva, poverina, perchè non c'è speranza nelle maledizioni. E la sua era quella di non poter vedere la realtà con gli occhi, ma solo attraverso fumosi specchi, e ritrarla sulla tela che tesseva giorno dopo giorno. Chissà se davvero la speranza fa la differenza? E' meglio un cuore di ghiaccio, o uno di vetro? Se non arriva nessuno a sciogliere il ghiaccio, se non viene nessuno a spezzare il vetro, c'è davvero senso nel tessere?